Per introdurre questa serie di incontri sulla rivoluzione cinese e sulla figura di Mao che ne è stata il simbolo, non si può non pensare a cosa è diventata la Cina e cosa sopravvive del suo passato nell’oggi tumultuoso, così come non si può ignorare il posto che questo gigante occuperà internazionalmente nel prossimo futuro.

Che questo paese, ancora poverissimo e drammaticamente arretrato alla metà del XX secolo, sia diventato il maggior creditore nei confronti degli USA, il paese riconosciuto tuttora egemone nell’Occidente capitalista, contribuendo con iniezioni di liquidità a fronteggiare sul finire del primo decennio del 2000 l’insolvenza dei maggiori istituti di credito americani, è di per sé motivo di meraviglia.

Contemporaneamente è purtroppo motivo di preoccupazione che l’ingresso della Cina tra le potenze planetarie abbia aumentato la contrapposizione strategica tra i due colossi: non dimentichiamo infatti che gli analisti del Pentagono (le indefesse teste d’uovo responsabili di tanti errori e tragedie) hanno previsto, nel primo quarto del XXI secolo, un inevitabile confronto militare tra le due superpotenze a fronte della crescente e reciproca rivalità economica.

Una tale conflittualità strisciante spiega, in parte, perché la celebrazione folkloristica del 60° anniversario della Repubblica Popolare sia stata accompagnata da una parata militare “muscolare” e apparentemente anacronistica.
Più complesso è capire perché, in occasione delle celebrazioni, il gruppo dirigente cinese abbia fatto un insistente riferimento a Mao Tze Dong e al “suo pensiero” e il premier, sorprendentemente, si sia presentato al tradizionale bagno di folla in giacchetta simil militare, come usavano i dirigenti in quell’epoca.

La ragione, probabilmente, non sta solo nei riferimenti rituali al “Grande Timoniere” di cui, periodicamente anche nell’era di Deng, i dirigenti cinesi hanno fatto uso, quanto nella necessità di mobilitare il paese contro i ceti più aggressivi e contro lo stile di vita indotto dal nuovo consumismo. E questa considerazione spiega perché una qualsiasi storia della Cina moderna non può ignorare il carattere peculiare della rivoluzione cinese, così come l’impronta personalissima che Mao vi ha calato.

La serie di “conversazioni” tenute da uno studioso della storia recente della Cina come Aldo Natoli, sono un rilevante contributo alla comprensione delle vicende complesse di questo gigantesco paese, troppo spesso deformate allo stesso tempo dall’esaltazione dogmatica o dalla demonizzazione di maniera. Tali conversazioni, rivolte ad un folto pubblico anche di lavoratori, si svolsero tra il 1976 e il 1977, subito dopo la morte di Zhou En-Lai e Mao, quando ancora non era facile fare una analisi originale ed equilibrata della storia della rivoluzione e del PCC.

Nel percorso storico Aldo Natoli ha da subito messo in risalto i motivi “nazionali” a cui si ispirarono Mao e i dirigenti cinesi già nel 1927, dopo la rottura del fronte democratico e la semidistruzione del PCC ad opera di Chang Kai-Shek. Natoli ha giustamente messo in risalto come il perseguimento dell’indipendenza nazionale, eredità del progetto democratico di Sun Yat-sen e per qualche tempo del movimento nazionalista Kuomintang, si incardinò nella visione politica dei giovani dirigenti nazionalisti, molti dei quali si erano formati in Europa.
Essi, raccolti intorno a Mao nel giovane PCC, quando fu il momento trasformarono un confuso anelito nazionalista nel movimento di resistenza antigiapponese, fondamento dei successi dell’Armata Rossa anche nei confronti di Chiang Kai-Shek, occupato negli anni ‘30 solo a combattere i comunisti.

Quell’ispirazione caratterizzò la politica cinese anche dopo la proclamazione della repubblica popolare conducendola, di li a qualche anno, a farsi promotrice della famosa linea di Bandung, la conferenza che raccolse nel 1955 molti paesi in via di sviluppo in una drammatica e purtroppo inane lotta contro il predominio dei paesi più sviluppati. Come diretta conseguenza di questi orientamenti furono conseguenti le scelte di contare sulle proprie forze, condizione centrale per la fuoriuscita dalla dipendenza e, secondariamente, di puntare su una crescita rapportata allo sviluppo delle forze produttive nazionali, prime fra tutte quelle rappresentate dalle sterminate masse contadine.

Queste in Cina erano sempre state le protagoniste insostituibili di un qualsiasi tentativo di sviluppo che non dimenticasse l’originaria aspirazione alla giustizia sociale e all’uguaglianza. Infine, essendo la Cina collocata all’interno di quello che dalla III Internazionale si definiva come “movimento operaio internazionale”, fu inevitabile il perseguimento tenace e non privo di gravi traumi, dovuti ad una violentissima lotta interna al PCC stimolata dalle trame staliniane, di un progressivo (e compatibile) distanziamento dai condizionamenti sovietici prima, e della logica dei blocchi contrapposti poi.
Questa scelta fu preparata e poi sviluppata da una critica, non sempre esplicita, all’orientamento politico ed economico dello stalinismo calato all’inizio degli anni ’30 sul movimento comunista internazionale e trasformatosi, dopo la seconda guerra mondiale, nella soffocante e subalterna realtà dei paesi del cosiddetto “socialismo reale”.

E’ grande l’interesse che il seminario suscita, svelando la storia meno conosciuta del PCC: dopo la sconfitta del giovane partito nel 1927, furono in particolare gli anni che vanno dal 1931 al 1935 quelli durante i quali si andò formando la visione di Mao, contemporaneamente allo scontro con il quadro dirigente del partito controllato allora dai cosiddetti “28 bolscevichi” e vicino al Comintern. Furono anni terribili durante i quali Mao fu sempre all’opposizione fino ad essere rimosso dalla direzione della commissione militare, escluso dagli organi dirigenti e, forse, per qualche tempo costretto agli arresti domiciliari. Ma egli, insieme ad un manipolo di giovani dirigenti rivoluzionari, arrivò a formulare più compiutamente la sua visione politica solo nel corso di un ventennio di fuoco, dominato dall’occupazione brutale dei giapponesi, dalle mire opportuniste dei nazionalisti e, non da ultimo, dai tentativi dello stalinismo di controllare il giovane movimento comunista cinese.

Le prime notizie ufficiali sull’esistenza di una strisciante lotta politica all’interno del gruppo dirigente cinese si ebbero nel 1953, dopo la morte di Stalin e nel quadro dei risultati del Primo Piano Quinquennale e del suo parziale fallimento. Era in gioco la costruzione della nuova Cina e le scelte produttive del paese su cui incombeva l’esempio, o sarebbe meglio dire il condizionamento, del campo socialista. Secondo Mao se si voleva evitare di ripercorrere l’esperienza sovietica bisognava rinunciare al primato dell’industria pesante nel modello di sviluppo, facendo leva sulla risorsa economica principale della Cina, cioè le campagne e sui contadini, masse sterminate a cui egli si era già rivolto durante la lotta contro il Giappone e il Kuomintang.

Si aprì allora una aspra lotta tra coloro che nelle campagne privilegiavano le piccole aziende agricole e chi, come Mao, sosteneva la necessità di sviluppare le cooperative agricole, passaggio obbligato perché, insieme alla trasformazione della proprietà, si elevassero le masse contadine povere al rango di protagonisti del rivoluzionamento dei rapporti sociali nella giovane società cinese. Di tutto questo il ciclo di conversazioni fa una trattazione approfondita e articolata, tale da descrivere esaurientemente lo sviluppo di quei grandi rivolgimenti sociali e politici.

Quello che si rivela il contributo migliore delle conversazioni, riguarda proprio gli anni dell’edificazione della nuova società, con le sue grandi illusioni e i suoi tragici errori che segnarono in modo indelebile gli esordi della giovane “Repubblica Socialista”. Nel 1949, mentre le ombre della Guerra Fredda calavano sulla scena internazionale, il PCC si trovò a governare un territorio enorme, popolato da masse sterminate divise in alcune decine di nazionalità e con il problema di mangiare almeno una volta al giorno. Il paese già storicamente povero era uscito dalla guerra antigiapponese e dalla guerra civile stremato e, da subito, minacciato alle frontiere da Taiwan e dalla SEATO, una coalizione militare controllata dagli Stati Uniti e cementata dall’anticomunismo dei suoi governi.

La fame nelle campagne, la bassa capacità industriale concentrata in alcune città della costa, la dipendenza tecnologica e la mancanza di esperienza nell’edificazione economica che non fosse quella centrata sull’industria pesante e sul modello dei piani quinquennali di derivazione sovietica, costituirono le sfide terribili che si presentarono immediatamente ai dirigenti cinesi.
Tra le altre cose il movimento comunista internazionale, con il caso incombente della Iugoslavia di Tito e della sua riaffermata autonomia da Mosca, mostrava già allora quelle divisioni che si sarebbero rivelate presto catastrofiche, soprattutto per paesi depressi e isolati come la Cina.

A complicare ulteriormente la situazione si aggiunse la competizione nucleare tra le due Superpotenze che portò in primo piano problemi di sicurezza nazionale e di ammodernamento dell’apparato militare cinese che non poteva non conferire una maggiore influenza ai quadri dell’Esercito Rosso, largamente rappresentati ai vertici del partito.

Tornando agli anni iniziali della Rivoluzione cinese, contrariamente all’immagine di un despota pedissequamente osannato che ne dà ancora oggi la vulgata più frettolosa, Natoli ha ricordato che Mao passò gli anni dal 1931 al 1935 in posizione pericolosamente minoritaria proprio quando la “bolscevizzazione” imposta da Stalin manometteva tragicamente il movimento comunista internazionale. E negli anni successivi le cose non migliorarono di molto considerando che, almeno fino al 1942, egli fu impegnato in una lotta interna contro tentativi ripetuti di importare il modello economico sovietico e contro il centralismo e il burocratismo nel partito e nell’apparato del giovane stato.

Va sottolineato, e nessuno lo fa, che lo scontro anche più violento nel PCC non dette mai luogo però alle epurazioni e alle vendette sanguinose che caratterizzarono lo stalinismo, almeno dal ’34 in poi. Aldo Natoli ha tratteggiato approfonditamente gli eventi politici determinatisi dopo il 1956, sia per le conseguenze relative alla pubblicazione del rapporto segreto di Krusciov contro la politica di Stalin, sia per gli effetti seguenti ai fatti ungheresi nella dinamica interna al PCC dove era in corso il confronto serrato tra concezioni diverse dello sviluppo.

Proprio nell’aprile del 1956 Mao aveva pubblicato un documento dal titolo “Sui dieci grandi Rapporti” con cui delineava una sua visione della edificazione economica, edificazione che doveva essere lontana dai modelli capitalistici ma anche diversa dal modello sovietico che intanto cominciava ad essere applicato in Cina dove era in pieno sviluppo il primo piano quinquennale. Che questa sua posizione e di un ristretto gruppo di dirigenti fosse minoritaria, è dimostrato dal fatto che già cinque mesi dopo quel rapporto, in occasione dell’VIII Congresso del Partito, il primo dopo undici anni, Mao vi ebbe uno spazio limitato con un breve intervento, a differenza di Zhou En-Lai e Liù Shao-Chi che dominarono i lavori del Congresso, consolidando la loro posizione nel Partito.

Sicuramente dopo l’inizio della destalinizzazione in URSS e dopo i fatti di Polonia e Ungheria del ’56, Mao iniziò una controffensiva politica nel partito sulle grandi questioni dell’edificazione socialista, sulle tendenze burocratiche e sul permanere della disuguaglianza nella società cinese. Con la pubblicazione del discorso “Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo”, pronunciato all’assemblea del Consiglio di Stato all’inizio del 1957, Mao iniziò la sua battaglia per il riconoscimento da parte del Partito del permanere nella società di transizione di contraddizioni di diverso tipo e sulle conseguenze del perdurare della lotta di classe nella società postrivoluzionaria.

Era evidente che non si trattava di un dibattito accademico su questioni astratte, ma il dilemma angosciante su quale dovesse essere la strada da seguire nella costruzione della nuova società gravida, secondo Mao, di pericoli insidiosi dovuti al crescere delle disuguaglianze insieme al formarsi di una nuova classe, intrecciata con la burocrazia statale e di partito, erede di quei privilegi esorbitanti che furono della classe appena spodestata.
Con un occhio alla lotta in seno al partito e un altro alle tensioni sociali, Mao tentò un esperimento “rivoluzionario” per evitare quel fatale condizionamento che aveva portato i paesi socialisti ad edificare società diseguali e nella sostanza arretrate.

Dovendosi misurare con la secolare indigenza della Cina, la storica disuguaglianza tra zone e zone, tra città e campagne, con l’impossibilità di contare sui colossali investimenti necessari per dotare il paese di strutture produttive efficienti, con centinaia di milioni di persone ai limiti della sussistenza, Mao non aveva molte strade da percorrere. Qui sta la ragione delle due campagne lanciate nel 1958 che tanto dovevano costare al paese in termini di rivolgimenti e di sofferenze materiali.

Da una parte egli cercò di mobilitare la più grande risorsa di cui disponeva il paese, cioè la forza lavoro e principalmente le masse contadine, tentando di sviluppare contemporaneamente agricoltura ed industria (soprattutto quella piccola ed artigianale) in modo da evitare che le campagne finanziassero lo sforzo industriale, come era successo in URSS e che tanto era costato in quel paese in termine di vite umane e di povertà.
Dall’altra, probabilmente mosso da un intento antiburocratico, Mao cercò di mantenere un legame tra lo sforzo produttivo imposto al paese e l’amministrazione dello Stato e del Partito, in modo tale che i nuovi strati formati da funzionari e dirigenti ai vari livelli non si separassero dalla società, diventando gli uni i tiranni dell’altra.

Ci voleva un contenitore, un istituto comune e generalizzabile nel paese, dai grandi complessi industriali al più piccolo dei villaggi nelle campagne, capace di mobilitare le gigantesche risorse umane del paese, altrimenti amorfe: questo contenitore fu individuato da Mao nelle Comuni popolari.
Diversamente da chi, oggi, commentando quelle drammatiche scelte economiche non vede altro che “crimini”, Natoli fa della campagna sul “Grande Balzo” una analisi più realistica ed equilibrata.

Pur mettendo l’accento sugli ambiziosi obiettivi che Mao si prefiggeva, il relatore non ha nascosto le riserve e le critiche sulle conseguenze economico sociali che quell’immenso movimento determinò.
Natoli parla di errori diversi: al produttivismo difeso da larghi settori del partito insieme alla classe operaia delle grandi città, si aggiunsero le forzature dovute ai tentativi più estremi di collettivizzazione in quelle zone rurali dove più profondamente aveva inciso la rivoluzione agraria all’indomani del lancio delle cooperative agricole. E per ultimo egli indica nell’ideologismo e nel radicalismo dei tentativi di costruire esperienze “comuniste” fondate sul collettivismo totale e sulla messa in comune dei mezzi di produzione, l’origine dei conflitti e delle tensioni più destabilizzabili.

In un paese così vasto e densamente popolato, con una struttura economica e sociale estremamente diversificata, il rischio di una perdita di controllo sugli avvenimenti e sulle grandi masse mobilitate divenne reale.
A far precipitare una situazione già grave si aggiunse la Natura: dal ’58 al ’60, infatti, la Cina fu devastata da terribili rivolgimenti climatici che, tra inondazioni e periodi di siccità, mise in ginocchio il paese.
Ancora oggi i cinesi ricordano quel periodo come i “tre anni difficili”.

Qualunque giudizio si voglia dare a posteriori, è innegabile però che l’esperienza delle “Comuni Popolari” dette dei risultati nel complesso importanti. Il movimento delle Comuni infatti, dopo un periodo di assestamento durante il quale esse furono omogeneizzate dal punto di vista delle dimensioni e delle loro funzione amministrative, diventò la spina dorsale della struttura economica del paese raggiungendo risultati economici e produttivi di un certo rilievo.

Senza ricordare questo d’altra parte non si capirebbe perché furono necessari quasi venti anni per provocarne il superamento ad opera delle riforme introdotte da Deng. Le fughe in avanti del movimento, soprattutto a partire dagli strati più poveri della popolazione, gli errori di programmazione, l’incapacità di guidare le trasformazioni auspicate e l’attacco esplicito dei sovietici, crearono le condizioni per lo sviluppo nel partito dell’opposizione alla linea di Mao e l’apertura di una lotta politica che doveva sfociare, di li a poco, nella Rivoluzione Culturale.

Quando nel ’59 Peng Deng-Huai, anche grazie alla posizione defilata assunta da dirigenti come Liù Shao-Chi e Deng Xiao-Ping, attaccò apertamente Mao per i gravi problemi dovuti all’esperienza delle Comuni, il partito fu attraversato da una crisi profonda. Anche se non perse completamente lo scontro Mao dovette accettare una posizione più defilata ai vertici del partito e una risoluzione dell’Ufficio Politico che imponeva un attento riesame dell’intero movimento.

Dalla fine del ’59 fino al ’65 la Cina conobbe un periodo di gravi crisi economiche che portarono addirittura alla temporanea reintroduzione del razionamento dei generi di prima necessità; a causa di ciò nel paese si acutizzarono in maniera crescente le tensioni sociali e ci fu una ripresa preoccupante della lotta di classe tra ampi settori della popolazione, soprattutto tra chi voleva espropriazione e collettivizzazione accelerata delle terre e dell’economia e chi, come i piccoli proprietari, spingeva per trasformazioni più diluite nel tempo e misure meno drastiche.

In quel periodo Mao, pur rimanendo nella Commissione Militare, si trovò in una posizione assai scomoda e nel gruppo dirigente la sua linea fu attaccata ripetutamente. Dopo i gravi danni provocati dalla politica del “Grande Balzo”, egli fu costretto a lasciare anche la carica di Presidente della repubblica popolare a Liù Shao-Chi, mentre Deng assunse quella di Segretario del PCC.
Se nel partito presero il sopravvento la destra e l’apparato, i più legati all’URSS, nel paese si rafforzarono anche quegli strati che reclamavano maggiore libertà di impresa e di accumulazione. A Mao non rimase che l’attesa e l’inizio di una riflessione approfondita sui problemi dell’edificazione socialista e sul modello economico operante in URSS.

Così, già nel 1962, al X Plenum del CC egli pronunciò il discorso: “Non dimenticate la lotta di classe” con cui illustrò la sua linea per affrontare le contraddizioni che si stavano generando nel partito e nel Paese. Al produttivismo, alla richiesta di incentivi materiali che significava libertà di mercato e sviluppo di imprese private autorizzate ad assumere mano d’opera e a reinvestire i profitti, Mao rispose mettendo l’accento sulla forte disuguaglianza ancora presente nel paese e fonte di crescenti conflitti sociali.

Gli anni che vanno dal 1965 al 1967 furono gli anni in cui nella Cina si sviluppò il movimento della Rivoluzione Culturale, movimento che poggiò inizialmente su ampi settori di contadini poveri, su una parte dell’esercito dove le gerarchie legate a Lin Piao e Zou Teh cercavano di estromettere quelle ancora legate a Peng Deng-Huai, e su un vasto movimento giovanile e studentesco. Mentre nel paese incombeva la campagna di “Riaggiustamento” dopo il prevalere di Liù e Deng nel partito, la Rivoluzione Culturale iniziò in quel lontano 1965 a mettere le sue radici. L’emergere di una imprevista contraddizione come l’impossibilità di impiegare milioni di giovani cinesi diplomati, i quali non potevano trovare sistemazione nelle università, dopo aver evidenziato il sorgere di pericolose lacerazioni sociali, degenerarono rapidamente in scontri cruenti.

Forse, inaspettatamente, agli artefici della rivoluzione si pose il problema di come mobilitare la generazione dei nati dopo il 1949, nutriti purtroppo solo di una storia tramandata e celebrativa. Per Mao fu l’occasione per lanciare una campagna mirante a spingere la Cina sulla strada del superamento delle tre grandi differenze (quella tra città e campagne, quella tra industria ed agricoltura e quella tra lavoro manuale ed intellettuale) che aveva sempre considerato come una delle cause dell’ arretratezza del paese.

Proprio la scuola, nonostante il ritardo scientifico e tecnologico del paese, era diventata il luogo della riproduzione di nuove differenziazioni sociali: se 150.000 studenti ogni anno venivano ammessi agli studi superiori, milioni di semplici diplomati, non trovando posto nelle università né in un lavoro adeguato, andavano ad ingrossare le masse amorfe di disoccupati ai margini dei centri abitati. Oltre che frenare l’urbanizzazione e occupare i giovani il movimento ebbe per Mao, almeno inizialmente, l’obiettivo di sostenere la campagna di educazione socialista, continuare l’aspirazione egualitaria del Grande Balzo, sostenere le forme di proprietà e di lavoro collettivo fondate dalle Comuni, nel quadro della più generale lotta nel partito contro l’impostazione puramente economicista e amministrativa contenuta nella strategia del “Riaggiustamento”.

Tuttavia una riedizione dello xia fang, cioè lo spostamento nelle campagne di masse ingenti di quadri, funzionari, burocrati da “rieducare” e soprattutto di giovani diplomati, così come era stato fatto all’inizio del “Grande Balzo”, non poteva avere lo stesso esito. Il trasferimento ordinato di masse giovanili nelle campagne era ancora più irrealistico, soprattutto quando i movimenti sociali venivano diretti contro le autorità scolastiche e più in generale contro il partito e lo Stato.
Non restava quindi che, insieme alla marginalizzazione dei dirigenti più compromessi nell’opposizione al movimento delle Comuni e fautori di un rilancio produttivistico, colpire le frange più radicali, soprattutto fra gli studenti, responsabili di vasti disordini e delle più recenti difficoltà del partito.

Il rivoluzionamento fu comunque profondo e interessò la struttura stessa del partito in tutto il paese dove si era radicato, rivelandosi, comunque, come un inedito esempio di “dialettica sociale” in confronto alle mummificate società dell’est europeo. Se pure il movimento frenò la degenerazione burocratica nel partito e nelle istituzioni dello Stato, i dissesti provocati dai settori più radicali che minacciavano non tanto le gerarchie di partito quanto il funzionamento delle istituzioni, doveva portare inevitabilmente ad un brusco riequilibrio.

Mentre il partito ricostruiva le sue strutture sconvolte dall’estensione della Rivoluzione Culturale, Mao utilizzò la grande mobilitazione popolare, soprattutto dopo aver ottenuto l’appoggio degli operai dei centri industriali più grandi, per dare un colpo agli elementi di destra nel partito rafforzatisi negli anni precedenti. Questo portò all’espulsione di Liù Shao-Chi e all’estromissione, temporanea, di Deng Xiao-Ping.
Sul piano della mobilitazione politica e sociale delle masse popolari, Mao si impegnò con decisione nella lotta senza cogliere che il radicalismo di una parte del partito che si richiamava alle sue direttive, gli si opponeva nei fatti nel momento che era necessario contrastare il movimento di forze sociali che chiedeva modernità ma anche il miglioramento delle condizioni di vita.

Negli anni ’70, e fino alla sua morte, Mao insieme a Zhou En-Lai, tentò di governare gli equilibri del paese e del partito, senza perdere di vista l’isolamento della Cina aggravato dall’azione dell’URSS e senza dimenticare lo sviluppo del paese ancora molto arretrato. I rapporti con l’ala più radicale del partito collocata ai vertici grazie al sostegno guadagnato presso il movimento popolare con la rivoluzione culturale, fu sempre complesso e non privo di titubanze, come dimostra il suo stretto legame fino all’ultimo con il suo ministro degli esteri.

Dopo la morte di Mao il ritorno prepotente di quella parte del paese e del partito che propugnavano il superamento della stasi prodotta dal pauperismo e dall’ideologismo, fu rapido e inarrestabile. La ricomparsa annunciata di Deng (fatto inspiegabile se si volesse considerare la Cina di Mao come un regno del terrore retto da un despota come vorrebbe un certo immaginario di parte) sull’onda della parola d’ordine delle “4 modernizzazioni” fu prevedibile e largamente condiviso; contemporaneamente quel ritorno coincise con una ripresa della politica di potenza che cambiò alla radice il posto occupato internazionalmente dalla Cina.

Dovrà passare quasi un decennio, ben oltre quindi l’eliminazione dei “quattro”, per avere ragione dell’esperienza delle Comuni Popolari, artefici comunque del consolidamento economico del paese dopo anni di calamità naturali e difficoltà nella produzione. Le quattro modernizzazioni, gli incentivi produttivi, una più accentuata divisione del lavoro insieme alla centralizzazione della direzione aziendale nelle mani dei direttori, provocò seri contraccolpi tra i vari strati sociali della Cina di quegli anni.

Va detto però che l’agricoltura non fu mai relegata al ruolo di finanziatrice della produzione industriale e non si registrò, in virtù di ciò che era stato costruito fin lì, nessun repentino impoverimento delle masse contadine. Come azione diretta a scompaginare i settori che maggiormente erano stati coinvolti dalla rivoluzione culturale, nelle scuole e nelle università fu privilegiata la meritocrazia, volta anche a superare i ritardi nella formazione di nuove leve tecniche scientifiche.
Fu perseguita con tenacia, infine, la costruzione di un “rapporto privilegiato” con gli USA, anche se questo significò il distanziamento definitivo dall’URSS. Nel paese fu favorito l’ingresso di industrie e capitali americani e, subito dopo, occidentali, che fruttarono lucrose commesse e grandi affari pagati interamente dalle maestranze cinesi. Certamente questa fu anche la strada per fagocitare tecnologie e competenze che sono alla base dell’attuale dinamismo economico cinese.

Mao forse non previde lo stravolgimento repentino del suo disegno di crescita del paese, come non immaginò che la Cina avrebbe raggiunto la forza economica che esibisce ai nostri giorni, ma non era inconsapevole o torpido come lo dipingono i suoi attuali detrattori. Negli ultimi mesi di vita disse che “dopo la sua morte, la destra avrebbe ripreso il potere nel paese” ma, aveva aggiunto subito dopo: “per qualche tempo”, a significare che qualsiasi trasformazione economica e sociale nel paese avrebbe dovuto fare i conti con la variabile indipendente rappresentata dalle masse contadine e dalla storia recente della Cina.

Così quando commentiamo i dati macroeconomici della Cina, il titanismo di opere come le gigantesche centrali elettriche, la trasformazione di Shangai nel più grande porto del mondo o la nascita di una industria automobilistica che contende il primato a quella giapponese, non dobbiamo ritenerlo superficialmente come la sola conseguenza dell’esplodere del capitalismo, anche se di stato.
Nel paese, dove crescono le differenze tra il nord conservatore e più arretrato e il sud acculturato e a maggior reddito, si è affermata una particolare forma di keinesismo autoritario insieme al sostegno regolato dell’iniziativa privata da parte dello stato.

Dietro l’apparente nazionalismo cinese c’è l’orgoglio nazionale del camminare sulle proprie gambe, come dietro alla seduzione dell’arricchitevi si può scorgere anche l’etica postrivoluzionaria del lavoro insieme ad una nuova consapevolezza delle opportunità.
Non possiamo affidare a queste poche righe una riflessione approfondita sull’esperienza della rivoluzione cinese dal 1949 ad oggi, così come non è scopo di questa introduzione dare un giudizio sul ruolo di Mao Tze-Dong nelle vicende di questo paese, anche se la crescente distanza storica dal suo tempo favorirebbe un approfondimento analitico.

Purtroppo è triste constatare che ancora oggi si parli delle vicende di questo paese e delle sue infinite vicende umane, strette tra la violenza impietosa delle forze della natura o i feroci conflitti susseguitisi per secoli, prescindendo appunto dalla forgia che lo ha plasmato. Le analisi più accreditate in Italia sono quasi sempre ferme alle dicerie dell’ultima guardia del corpo o della penultima badante di casa Mao spacciate come le fonti più informate, continuando a discettare di processi sociali che hanno coinvolto e coinvolgono centinaia di milioni di persone, come delitti perpetrati da una classe politica di degenerati, misurati sul numero delle vittime che vengono loro attribuite.
E’ come se si volessero giudicare le secolari catastrofi prodotte dai paesi europei in tutto il mondo come la patologia delle dinastie nazionali o l’espansione aggressiva del capitalismo nordamericano che dal 1865 ha sommato strage a strage, colpo di stato a colpo di stato con milioni di morti al seguito, come crimini dei vari presidenti USA da U. Grant ai giorni nostri.

Quando E. Snow scriveva :”…(Ne) vidi migliaia, uomini, donne e bambini, morire di fame davanti ai miei occhi. Avete mai visto un uomo – un uomo onesto che ha sempre lavorato duro, che rispetta la legge, che non fa del male a nessuno – quando non ha mangiato niente da più di un mese? … ha venduto moglie e figlie. Qualche volta ha venduto anche l’ultimo straccio di decenza e barcolla sotto il sole cocente…”, davvero la si può considerare come resipiscenza dell’ingenuo piccolo borghese del Missouri in cerca di uno scoop giornalistico? O vogliamo credere che Malraux fu solo l’acculturato spettatore delle atmosfere d’Oriente quando descriveva la consunzione umana nelle terre sconvolte della Cina diventata terra di conquista?

Alla fine si sono dimostrate più equanimi le parole di un certo Li Rui, un protagonista delle più recenti vicende cinesi, due volte caduto in disgrazia e due volte risorto, ricordato da Federico Rampini in un suo libro quando, parlando della liberazione della Cina dall’invadenza delle potenze coloniali, l’ha indicata come il merito storico più importante di quella rivoluzione.

Per fortuna, prendendo le distanze dagli storici più partigiani, una giovane leva di ricercatori anglosassoni ha cominciato a rifiutare decisamente di separare Mao dal maoismo e ogni qualunquistica demonizzazione del “dittatore”. “Va saggiamente rifiutata”, come ricorda Federico Rampini, un critico tutt’altro che benevolo verso il maoismo, “la caricatura di un paese arido e disumano, abitato da una folla anonima di automi pronti ad obbedire agli ordini del capo supremo. La Cina vera, anche negli anni più bui e opprimenti della rivoluzione culturale, è invece un mosaico che oggi viene lentamente ricomposto dal cinema e dalla letteratura; … ed è innegabile che, alla fine della sua esistenza, …sia (stato) proprio Mao a priva(re) della sua protezione politica la famigerata Banda dei Quattro, … lascia(ndo) prevalere la fazione moderata di Deng Xiao-Ping”.

Come si vede, al di là del fatto che la mummia del “timoniere” sia esposta alla vista dei turisti e che sulla piazza della “Pace Celeste” giganteggi un suo ritratto, il richiamo anche strumentale, alla sua figura e ai cardini fondamentali del suo pensiero costituiscono ancora per la Cina un insostituibile riferimento politico.

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